giovedì 9 aprile 2015

Ritratto di Dacia Maraini

Il 15 marzo su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Dacia Maraini




Dacia Maraini: "Ho vissuto di amori e successi, ora fuggo dal vortice delle passioni"

A tre anni era in un campo di concentramento. Per mantenersi a Roma fece la hostess. Poi scoprì la letteratura. Dall'infanzia a oggi, la scrittrice si racconta. E rivela: "L'unica strada è aiutare gli altri"


di ANTONIO GNOLI

UNA leggera quiete avvolge l'immagine di Dacia Maraini. È una donna che mi fa pensare a mille altre donne che nel tempo hanno consolidato l'idea che esistono legami, sorellanze, generosità da cui sovente il mondo maschile è escluso. Sorride. Composta. Nell'intimità di una parola attenta ma non studiata. Non esibita. Non ricercata. "Lei pensa davvero che le donne siano migliori dell'uomo? Io non lo credo. Sono state solo più bistrattate, umiliate, incarcerate in quella deriva mentale fatta di paura e sudditanza. Ma non hanno per questo prodotto nessuna vera differenza".

Ah, la differance. Mi chiedo se la nostra conversazione possa avere inizio
con il più insidioso e trito degli argomenti: il femminismo. "Non è trito, insidioso forse, ma soprattutto storicamente superato", ribatte. "Le ideologie sono quasi tutte scomparse. Non ci resta che la prassi. Rimboccarsi le maniche e fare qualcosa per gli altri. Che importa se siano donne o detenuti, o malati di mente, o senza casa, o immigrati? Sono ai margini di un mondo che ci interpella. Da piccola mi mettevo sempre dalla parte di chi subiva un'ingiustizia".

Le veniva così naturale?
"Sì, non c'erano sovrastrutture che lo impedivano. C'ero io, in carne e ossa, e la realtà offesa. Difficile ripararla. Ma ho imparato a riconoscerla e a combatterla. Del resto le offese, la durezza, i traumi sono stati una parte tutt'altro che trascurabile della mia infanzia. Avevo tre anni quando mi trasferii con la famiglia in Giappone. Mio padre, Fosco Maraini, aveva ottenuto una borsa di ricerca grazie alla quale poter studiare una popolazione del nord del Giappone. Partimmo alla fine del 1938. Poi giunse la guerra. Infine nel 1943, il governo giapponese chiese a mio padre di aderire alla Repubblica di Salò. Rifiutò. Con la conseguenza che finimmo tutti in un campo di concentramento".

Tutto questo ci è stato raccontato da sua madre Topazia Alliata, in uno Straparlando di qualche mese fa. Era il punto di vista di un'adulta. Lei bambina come ha vissuto quei momenti drammatici?
"Fu un'esperienza traumatica. Ricordo che mi stupivo di essere ogni sera ancora viva. Sentivo le offese dei poliziotti e la fame. Mi avvelenai mangiando formiche. Ogni tanto sgattaiolavo oltre il filo spinato e per nutrirmi raccoglievo le foglie dei bachi da seta. Poi ci fu il drammatico episodio di mio padre che nella più perfetta tradizione samurai si tagliò un dito scagliandolo addosso al nemico".

Che gesto era?
"Fortemente simbolico. Di riconquista della libertà. Quando si recise il mignolo i poliziotti, per reazione, lo malmenarono e lo gettarono in una cella. Poi, qualche giorno dopo, lo liberarono e cominciarono a trattarci con più rispetto. Quel gesto, anche se compiuto da un occidentale, aveva la forza del rituale. Finì la guerra con la sconfitta del Giappone. Gli americani nel 1945 ci condussero a Tokyo. Era una città rasa al suolo. Attendemmo sei mesi prima di trovare una nave che ci riportasse in Italia".

Dove?
"In Sicilia, dove ero nata. La fame e la povertà continuavano a perseguitarci. Papà fece perfino il fotografo per poter campare. La famiglia di mia madre, un tempo ricca, con questo nonno straordinario e sognatore  -  Enrico Alliata  -  rovinò economicamente. Cosa mi aspettavo? Non lo so. I miei si separarono. Fosco tornò a Roma ai suoi studi di orientalistica. Restai con mia madre. Otto anni a Palermo. Alla fine decisi di raggiungere mio padre a Roma, dove viveva in un miserabile appartamento di piazza Bologna".

Ma suo padre non insegnava?
"No, faceva ricerca, scriveva. Ma la cattedra l'avrebbe avuta solo anni dopo a Firenze. Insomma, non ce la passammo bene. I primi soldi cominciai a guadagnarli come segretaria. Poi divenni hostess della Pan Am. Stava cambiando il vento. Il boom economico al- lontanò definitivamente lo spettro della povertà. Mi sposai con un pittore, Lucio Pozzi. Un matrimonio durato quattro anni. Ero incinta quando Lucio decise di andarsene. E io persi il figlio. Al settimo mese. Crollò il mondo".

Cosa si prova in quelle circostanze?
"Si crea un grande vuoto. Pensavo di non avere più scopo nella vita. Mi sentivo inutile. Mi svegliavo la mattina nella speranza che fosse già notte. Fu dura rimettermi. Cominciai a vivere da sola e a scrivere. Scrissi il mio romanzo di esordio e lo portai all'editore Lerici. Mi disse: bimba mia, se vuoi che te lo pubblichi devi procurarti la prefazione di un grande scrittore. Un giorno, in un bar, mi presentarono Alberto Moravia. Mi ricordai della richiesta di Lerici. Gli chiesi timidamente se voleva leggere il mio manoscritto. Gli piacque. Da lì cominciò la nostra lunga storia di tenerezza e amore".

Quanto durò?
"All'incirca 15 anni. Quando ci mettemmo insieme era già separato da Elsa Morante che in quel momento viveva una passione travolgente per Luchino Visconti. Era attratta dall'ambiguità sessuale. Nonostante ciò non volle mai divorziare da Moravia".

Non era una donna semplice.
"No, non lo era. La mia conoscenza di lei coincise in parte con il dramma della morte di Bill Morrow. Un artista che Elsa conobbe alla fine degli anni Cinquanta e di cui si innamorò disperatamente. Bill si gettò da un grattacielo di New York. Forse era drogato. Non si seppe mai se volle suicidarsi o pensava di poter volare. Era il 1962. Per un anno Elsa non uscì di casa. Appresi della fine di Bill una sera. Insieme ad Alberto c'era anche Pier Paolo".

Intende Pasolini?
"Sì, con Alberto erano molto amici. Ci vedevamo spessissimo. Cene, discussioni, viaggi".

C'erano differenze importanti tra Moravia e Pasolini?
"Alberto era cartesiano, mentre Pier Paolo era a suo modo un sensitivo, credeva nell'intuito. Aveva spesso un tono profetico. In comune c'era lo sguardo critico sulla società italiana. Tra l'altro, le cose che Pasolini avrebbe sostenuto  -  la mercificazione e l'omologazione dell'individuo  -  Moravia le aveva scritte molto prima nel saggio L'uomo come fine che uscì nel 1946 ".

Si è talvolta detto che il sodalizio tra Pasolini e Moravia costituì una specie di potere culturale romano.
"È un'accusa infondata. E poi quale potere? Nuovi Argomenti ? La rivista che aveva fondato e diretto. No, ad Alberto piaceva conversare e divertirsi. Sia lui che Pier Paolo erano due scrittori di prestigio, non di potere. Semmai, in quegli anni, il potere l'aveva il Gruppo '63, che attaccò entrambi. In modo scomposto e pretestuoso".

Moravia cosa pensava di sé scrittore?
"Non aveva nessuna sicurezza e non si è mai sentito superiore agli altri. Era come se ogni volta ricominciasse da capo".

In che senso?
"Odiava ripetere certe formule narrative. Per uno che aveva fatto un esordio folgorante con Gli indifferenti poteva apparire comodo ripeterne gli schemi e le tematiche. Lui non l'ha fatto. Ha sempre camminato su un campo minato".

Il vostro è stato anche un legame professionale?
"No, Alberto si rifiutava di esaminare le mie cose. Non voleva saperne niente. All'inizio del nostro rapporto mi capitava di sottoporgli i miei dubbi, le mie incertezze giovanili. E godevo nel chiederglielo. Dopo un po' si stancò di questo ruolo. Non voleva assolutamente essere un maestro. Ricordo però che ammirava tantissimo Fosco. Aveva letto entusiasmandosi il suo libro sul Giappone. Andammo anche a visitare i posti dove eravamo stati prigionieri. Era curioso di tutto e di tutti. Disponibile alla vita. Meno alla letteratura".

La giudicava un territorio privatissimo?
"Forse. Ricordo che quando a Parigi incontravamo Calvino, Sciascia, Ripellino erano cene bellissime. Si chiacchierava di tutto. Ma i romanzi restavano quasi sempre fuori dalla porta di casa. Alberto parlava un francese perfetto. Certe sere vedevamo Michel Butor e Marguerite Duras. E tutta l'attenzione della conversazione era per il mondo e le cose che vi accadevano".

A proposito di cene è vero che tutte le vigilie di Natale le passavate con la Morante?
"Sì, era una gran festa aperta a tutti. Elsa comprava i regali. Li metteva in un gran paniere e noi dovevamo pescarli come in un gioco. Adorava giocare. La settimana prima che morisse andai a trovarla in ospedale. Era riversa nel letto. Malata. La prima cosa che mi disse fu: "Giochiamo". "A cosa?" le chiesi. "A indovinare i personaggi", mi rispose. C'era una gioia infantile che compensava il suo modo tragico di stare al mondo".

Mi diceva che il rapporto con Moravia è durato 15 anni. Cosa è stata la separazione?
"A un certo punto ci siamo resi conto che non ci incontravamo più. Alberto aveva le sue storie e io le mie. Ma tra noi è restata una gratitudine e una solidarietà bellissime. Il giorno prima di morire venne a casa mia. Mi disse: "Carmen è in Marocco, mi accompagni a Sabaudia che ho dimenticato le mie scarpe?"".

Accennava a Carmen Llera, l'ultima compagna, anzi moglie. Che giudizio dà del suo rapporto con Moravia?
"Non do giudizi. Quella volta in Marocco ci andò con un altro. Me lo disse Alberto. E poi aggiunse: "Ho 83 anni, che devo fare? Posso solo capire". Nelle relazioni con altri, Carmen non nascose mai niente ad Alberto. E lui accettò tutto come fosse una realtà biologica".

C'era più saggezza o crudeltà?
"Era un uomo meraviglioso. Non ho mai pensato a lui in termini di sconfitta. È strano. Ma noto la stessa stravaganza tra le camicie rosa che acquistava e la morte che lo ha ghermito così rapidamente. Era quella che voleva. Voglio dire che in entrambe le situazioni c'è stata una segreta leggerezza".

Cosa le fa pensare la morte?
"Non ne ho paura. Anche se temo, credo come un po' tutti, le malattie".

In questi casi si bussa a un padrone più in alto.
"Mi sento tagliata fuori dalla fede. Sono laica e non atea. La fede è un atto d'amore che non si dimostra. Non ho questa grazia. Ma credo nella sacralità dell'essere umano. Mi fa orrore una cultura che trasforma tutto in merce. Anche la morte, appunto".

La morte anonima.
"Sì, ferocemente e accanitamente tecnologizzata. Quando morì mia sorella Yuki sentii che non potevo sopportarne il peso. Quella fine mi lasciò interdetta, sgomenta e ferita in modo indelebile".

Perché?
"C'è una scena che torna speso alla mente. È Yuki che dal letto dell'ospedale implora di essere portata a casa. E noi, della famiglia, non capivamo. Noi: fiduciosi dell'assistenza ospedaliera ma incapaci di sentire i desideri autentici di un morente".

I suoi desideri, da viva?
"Fare quello che faccio. Gli incontri nelle scuole. Il mio rapporto con il teatro. Lavorare ai miei libri. Viaggiare. Il solo Dio nel quale credo è quello dei naviganti ".

Cosa ha rappresentato per lei il successo?
"Non me lo aspettavo minimamente. Non esagererei né nel sottolineare i lati positivi né quelli negativi. Io penso che come l'amore il successo non vada cercato ".

E quando arriva? Come nel suo caso con Marianna Ucrìa ?
"Lo accetti senza fartene stordire. Non considero il successo una garanzia di qualità".

Per la sua imprevedibilità lo ha accostato all'amore. Perché?
"Mi piace immaginare l'amore come un fungo che nasce dopo una notte di pioggia. È una meraviglia improvvisa ".

È stata molte volte innamorata?
"Sì, numerose volte. Alcune felici e altre infelici. È giunto il tempo di rinunciare a questo stato d'animo".

Davvero si può?
"Non lo so. Sono convinta che occorre imparare a sublimare. Non si ha più la sicurezza del passato. Si impara a vivere con gli occhi ciò che prima si viveva con il corpo".

La sublimazione non è una perdita?

"No, semmai è una rinuncia. Dopotutto, perché ostinarsi ad andare incontro a delle delusioni? L'amore è anche una forma di prigione. Se non c'è ne guadagni in libertà. Naturalmente non lo escludo. Si può amare senza chiedere niente in cambio. È questo che col tempo ho capito. Stare fuori dal vortice e lontano dal fuoco delle passioni. Mi sentirei ridicola. Ogni gesto, ogni cosa, ha il suo tempo".

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