lunedì 22 febbraio 2016

Umberto Eco: "Così ho dato il nome alla rosa"



Umberto Eco: "Così ho dato il nome alla rosa"
Ripubblichiamo l’intervista in cui il semiologo recentemente venuto a mancare spiegava il segreto del romanzo che conquistò il mondo: “Un libro difficile e popolare”

di ANTONIO GNOLI
ritratto di Riccardo Mannelli

MILANO - VENTICINQUE ANNI FA IN POCHI AVREBBERO immaginato che un romanzo carico di ironia e di dottrina, sorprendente per ampiezza ed erudizione, a metà strada tra il teologico e il poliziesco, sarebbe diventato quello che ogni scrittore spera che accada, ma non confiderebbe neppure alla propria mamma, cioè un sogno da quindici milioni di copie. Il nome della rosa è stato questo.

E venticinque anni dopo resta il mistero dell'uomo che seppe dare il nome giusto alla rosa. Per questo vado a trovare Umberto Eco nella sua casa milanese, per capire la parte meno visibile di un successo, il lavoro che ci è voluto, le tracce che ha lasciato. A sorpresa apre una stanza chiusa a chiave.
"Qui ci sono i libri che ho consultato per i successivi romanzi". Ha l'aria di essere uno studiolo segreto, uno spazio poco illuminato, ma suggestivo. Sul tavolo un leggio con le tavole originali di un fumetto. Alle pareti testi rari: ricerche sui Rosacroce, prime edizioni di Ulisse Aldrovandi. Sul ripiano della libreria, dentro un contenitore cilindrico di vetro, galleggiano, irriconoscibili, i testicoli di un cane. Eco sorride: "Ne parlo nel mio ultimo romanzo". Ma è tempo di tornare al primo.

Che cosa non si sa ancora del "Nome della rosa"?
"Tutti pensano che il romanzo sia stato scritto al computer, o con la macchina da scrivere, in realtà la prima stesura fu fatta a penna. Però ricordo di aver passato un anno intero senza scrivere un rigo. Leggevo, facevo disegni, diagrammi, inventavo un mondo. Ho disegnato centinaia di labirinti e piante di abbazie, basandomi su altri disegni, e su luoghi che visitavo".

Da cosa nasceva questa esigenza visiva?
"Era un modo per prendere confidenza con l'ambiente che stavo immaginando. Avevo bisogno di sapere quanto ci avrebbero messo due personaggi per andare da un luogo a un altro. E questo definiva anche la durata dei dialoghi che non ero così certo di saper realizzare".

Capisco i luoghi, ma perché disegnare anche i monaci dell'abbazia?
"Avevo bisogno di riconoscere i miei personaggi, mentre li facevo parlare o agire, altrimenti non avrei saputo cosa fargli dire".

A volte lei dà l'impressione di non poterne più del clamore che il romanzo ha sollevato. Si sente sotto assedio?
"È fatale che ci si senta accerchiati. D'altro canto, constatare che attorno al Nome della rosa sono uscite migliaia di pagine di critica, centinaia di saggi, libri e tesi di laurea - l'ultima mi è arrivata la scorsa settimana - mi fa sentire abbastanza responsabilizzato da pronunciarmi su alcune questioni di poetica. È legittimo che un autore dichiari come lavora. Mentre la critica interviene sul modo in cui va letto un libro".

Si può dire che con "Il nome della rosa" ha realizzato una moderna operazione ironica su un affresco medievale?
"Diciamo, come accade per altre opere, che il mio romanzo può avere due o più livelli di lettura. Se io comincio dicendo: "Era una notte buia e tempestosa", il lettore "ingenuo", che non capisce il riferimento a Snoopy, godrà a un livello elementare, e la cosa ci può stare. Poi c'è il lettore di secondo livello che capisce il riferimento, la citazione, il gioco e dunque sa che si sta facendo soprattutto dell'ironia. A questo punto potrei aggiungere un terzo livello, da quando il mese scorso ho scoperto che la frase è l'incipit di un romanzo di Bulwer-Lytton, l'autore degli Ultimi giorni di Pompei. Ovvio che anche Snoopy stava probabilmente citando".

La sottile ironia letteraria, fatta di citazioni, rimandi, allusioni è un omaggio alla pura intelligenza. Ma non c'è il rischio che l'elaborazione della pagina finisca con l'avere poca narrazione e molta testa?
"Non sono fatti miei. Io mi posso occupare legittimamente di postille, di questa conversazione, del fatto che il romanzo è stato scritto in un periodo in cui si parlava molto di dialogismo intertestuale e di Bachtin. Se poi lei osserva, che così saranno pochi coloro che lo leggeranno, io le rispondo: sono fatti dei lettori, non miei".

È un'affermazione molto perentoria.
"La verità è che da quando è uscito Il nome della rosa sono stato sottoposto a una vera e propria doccia scozzese. Perché ha fatto un libro difficile che nessuno capisce? E io rispondo come il guerriero dancalo di Hugo Pratt: perché tale è il mio piacere. E allora perché ha fatto un libro popolare che tutti vogliono leggere? Mettiamoci d'accordo: è difficile, o è popolare? ".

Paradossalmente è entrambe le cose.
"A questo punto proporrei un'interessante questione: oggi diventa popolare un libro difficile perché sta nascendo una generazione di lettori che desidera essere sfidata".

A me pare un romanzo che gratifica le persone. Le fa sentire più colte di quello che sono.
"Non sono così sicuro. Il lettore ingenuo che confessa quale frustrazione tremenda sia non aver capito le citazioni in latino, mica si sente gratificato. O dovremmo concludere che c'è un tipo di lettore che gode nel sentirsi stupido".

Cosa decreta il successo di un libro come "Il nome della rosa"? Ammetterà che alla fine resta qualcosa di misterioso.
"È vero, io sto cercando delle spiegazioni. Ma solo perché lei me le chiede. Se dipendesse da me ne farei a meno. Quello che so e ho capito è che se "Il nome della rosa" usciva dieci anni prima, forse nessuno se lo sarebbe filato, e se usciva dieci anni dopo, forse sarebbe stato altrettanto ignorato".

C'è un esempio che abbiamo sotto gli occhi oggi: "Il codice da Vinci" di Dan Brown. Crede che se fosse uscito in un altro momento non avrebbe avuto lo stesso successo?
"Dubito che se Il codice da Vinci fosse uscito sotto Paolo VI avrebbe potuto interessare alla gente. La spiegazione del fenomeno che si è verificato su un giallo, tutto sommato modesto, è da ricondurre probabilmente alla grande teatralizzazione dei fatti religiosi avvenuta sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Sul romanzo di Dan Brown c'è stato un investimento teologico da parte della gente. Mettiamola così: ha scritto un libro apparso nel momento giusto".

È proprio l'idea del "momento giusto" che ha qualcosa di insondabile.
"Credo allo Zeitgeist, a quello spirito del tempo che ti fa fiutare le cose, e grazie al quale ricevi sollecitazioni che si traducono in qualcosa di compiuto e definito. Altrimenti, non potrei spiegarmi perché proprio nel 1978 e non prima mi viene in mente di fare Il nome della rosa. Benché, devo riconoscere, già ai tempi del Gruppo 63 io avevo pensato di scrivere un romanzo".

Perché ha scelto quel titolo, "Il nome della rosa"?
"Era l'ultimo di una lista che comprendeva tra gli altri L'abbazia del delitto, Adso da Melk eccetera. Chiunque leggeva quella lista diceva che Il nome della rosa era il più bello".

È anche la chiusa del romanzo, la citazione latina.
"Che io ho inserito per depistare il lettore. Invece il lettore ha inseguito tutti i valori simbolici della rosa, che sono tanti".

Le dà fastidio l'eccesso di interpretazione?
"No, sono dell'idea che molto spesso il libro è più intelligente del suo autore. Il lettore può trovare riferimenti cui l'autore non aveva pensato. Non credo di aver diritto di impedire di trarre certe conclusioni. Ma ho il diritto di ostacolare che se ne traggano altre".

Si spieghi meglio.
"Coloro che ad esempio nella "rosa" hanno trovato un riferimento allo shakespeariano " a rose by any other name", sbagliano. La mia citazione significa che le cose non esistono più e rimangono solo le parole. Shakespeare dice esattamente l'opposto: le parole non contano niente, la rosa sarebbe una rosa con qualunque nome".

L'immagine della rosa conclude il romanzo. Ma il problema vero per uno scrittore, soprattutto se esordiente, è come iniziarlo. Con quale disposizione mentale, con quali dubbi, si è posto di fronte alla prima pagina?
"All'inizio l'idea era di scrivere una specie di giallo. In seguito mi sono accorto che i miei romanzi non sono mai cominciati da un progetto, ma da un'immagine. E l'immagine che mi appariva era il ricordo di me stesso nell'Abbazia di Santa Scolastica, davanti a un leggio enorme che leggevo gli Acta Sanctorum e mi divertivo come un pazzo. Da qui l'idea di immaginare un benedettino in un monastero che mentre legge la collezione rilegata del manifesto muore fulminato".

Un omaggio ironico all'attualità.
"Troppo attuale e allora mi sono detto se non fosse stato meglio retrodatare tutto al medioevo. L'idea che un frate morisse sfogliando un libro avvelenato mi pareva efficace".

Come l'ha avuta?
"Credevo fosse un parto della mia fantasia. Poi ho scoperto che esiste già nelle Mille e una notte e che Dumas l'aveva copiata nel ciclo dei Valois. Quindi è un vecchio topos letterario. Essendo un narratore citazionista mi ha divertito".

So che all'inizio non aveva intenzione di dare "Il nome della rosa" alla Bompiani.
"Era la casa editrice nella quale avevo lavorato e pubblicato tutti i miei libri. È chiaro che lo avrebbero preso a scatola chiusa. Ma in un primo momento pensavo di consegnarlo a Franco Maria Ricci. Pensavo a una tiratura di mille copie in una collana raffinata".

E invece?
"Si sparse la voce che Eco aveva scritto un romanzo. Prima mi telefonò Giulio Einaudi, poi, mi pare, Paolini della Mondadori. Lo avrebbero preso senza discutere. A quel punto tanto valeva che lo pubblicassi con il mio editore".

Per essere un romanzo di nicchia non male. "Il nome della rosa" è stato pubblicato in trentacinque paesi. Cosa prova nel sentirsi consacrato a livello internazionale?
"Più che la fama, che non guasta, mi gratificano le lettere dei lettori. E da questo punto di vista, l'America è stata una vera sorpresa. Mi scrivevano non solo da San Francisco o da New York ma dal Midwest. Uno scrisse dicendo che per il solo fatto di aver nominato Eckart, il grande mistico, gli facevo tornare alla memoria un suo antenato europeo con lo stesso nome. Era per molti di loro un modo di conoscere le proprie origini".

A una critica negativa come reagisce?
"Non faccio tragedie. Quando ci si accorge che essa può dire tutto e il contrario di tutto, allora concludo che la critica è una mera reazione di gusto".

Lei ha scritto cinque romanzi. L'idea che il suo maggior successo sia stato il romanzo d'esordio cosa le fa pensare?
"Ci sono autori fortunati che toccano il picco delle vendite alla fine della loro vita e autori disgraziati che lo toccano all'inizio. Quando al tuo esordio vendi tantissimo, dopo puoi anche scrivere La Divina Commedia ma non raggiungerai mai più quelle cifre".

Considera una specie di condanna che qualunque cosa lei faccia si finirà sempre col tornare al "Nome della rosa"?
"Lo è senz'altro. Ma è anche una legge della sociologia del gusto, o meglio della sociologia della fama. Se uno diventa famoso per aver ucciso Billy the Kid, qualunque cosa faccia in seguito - dal diventare presidente degli Stati Uniti allo scoprire la penicillina - agli occhi della gente sarà sempre "quello che ha ucciso Billy the Kid"".

(fonte)

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