giovedì 2 febbraio 2017

Ritratto ed interviste a Paolo Conte

Paolo Conte
Riccardo Mannelli


Paolo Conte: "L'attualità mi fa orrore, il suo rumore impedisce di scrivere"
Le confessioni del grande musicista nei suoi ottant'anni: "Il passato prossimo invecchia prima di quello remoto. Faccio troppa fatica a pensare com'ero o come non sarò più"
di Antonio Gnoli per La Repubblica

Il maglione giro collo, lievemente sbrindellato; la sigaretta incollata alle dita; la voce roca che sembra avvolta dalla cartavetrata e infine l'occhio che ci ha messo molto tempo per diventare giovane, ma è lì che mi scruta con ironica sopportazione. Paolo Conte, ottant'anni compiuti questo mese,
mi accoglie in una nuvola di distratta eleganza. Ha da poco inciso un disco di soli brani strumentali, Amazing Game, per la Decca Records.

Bellissimo per gli echi di tutta la sua musica. Sediamo frontalmente davanti a un tavolino tra caffè e acqua minerale. La stanza che ci accoglie al pianterreno è quella di uno studio di avvocato. Professione che il cantante ha svolto a lungo. C'è ancora la targa in marmo all'entrata del portone: "Avvocato Conte". Me lo immagino in tribunale mentre conciona, arringa, difende. E non so che peso dare a questo fantasma. Asti non ha stelle uruguaiane in cielo, ma luminarie natalizie che pigramente sopravvivono in questa sera di fine gennaio.

La chiamano spesso "maestro". Fin dove arriva questa parola nel suo cuore?
"Si è maestri quando si insegna a qualcuno o quando qualcuno apprende. Ma il vero maestro è invisibile. Sorvolerei perciò sui nomi e le attribuzioni. Anche perché non ho mai insegnato niente a nessuno. Ho appreso, questo sì. E la più grande ammaestratrice è la vita".

La sua come è stata, com'è?
"Sommessamente fortunata".

Quanto sommessamente?
"Quanto può esserla in una persona che ha unito impegno e passione. Come uno scavo archeologico: c'è bisogno di pala e piccone per togliere sabbia e detriti. E alla fine, forse, c'è la fortuna ad attenderti. Luminosa o tetra come una statuetta egizia".

Le piace il tempo lontano?
"Penso che il passato prossimo invecchi prima di quello remoto".

Pensa con nostalgia a ciò che è stato?
" Credo che la nostalgia sia attraversata da impervie debolezze. Faccio troppa fatica a pensare com'ero o come non sarò più".

È la legge del tempo?
"Non è uguale per tutti. O lascia cicatrici di rancore. O qualche forma di dolcezza".

Lei vive in questa palazzina che a giudicare dagli esterni è dei primi del Novecento.
"Non ci vivo. Qui c'era lo studio di mio padre, di mio nonno. Qui abitavamo. Mi sono trasferito in campagna a una decina di chilometri da Asti".

Perché ha lasciato Asti?
"Non l'ho lasciata, è sempre nel perimetro della mia mente e degli affetti. Ma non amo la vita sociale. Vivo da solitario. Una moglie, le passeggiate con i cani e il ricordo dei vecchi amici che non ci sono più. Che ho perso per strada. Se devo fare l'orso mi viene bene farlo in campagna".

E cosa fa durante il giorno?
" Sono un abitudinario, leggiucchio, riscrivo vecchie partiture, guardo film, dipingo".

Il suo nuovo disco " Amazing Game" è accompagnato da alcuni suoi disegni.
"Dipingere è stato sempre un vizio. Perpetrato fin da bambino. Disegnavo trattori, poi donne nude e jazzisti. Piccole vanità di un antico dilettante".

Mica tanto.
"Le sembrerà strano ma le cose più belle non mi piace esporle".

E la canzone?
" La canzone è diversa. È la mia professione, è quello che il mio pubblico si aspetta che faccia".

Esercita ancora come avvocato?
"Da tempo ho chiuso".

Con qualche rimorso?
"No, anche se quasi tutti in famiglia erano dell'ambiente: mio nonno e mio padre notai; mio fratello avvocato. Io per lungo tempo in tribunale. Avrei fatto volentieri il medico".

Perché?
"Non mi sarebbe dispiaciuto prendermi cura degli altri. Sono belle le professioni fatte di azioni concrete".

La giurisprudenza non lo è?
"È piena d'aria e di parole".

Come il mondo della canzone?
"Eh no! Una bella canzone è fatta di sogno e di parole. E anche di realtà".

Quale realtà?
"Quella che incroci e vivi, magari senza averla scelta. Molti personaggi di alcune mie canzoni sono nati anche se indirettamente dalla mia professione di avvocato. Il "Mocambo", con il suo piccolo avventuriero che sogna cose proibite, deriva dalle mie conoscenze in tribunale ".

I suoi personaggi non sono mai degli emarginati.
"Li tratto bene, cerco di cullarli nelle amache dei miei ricordi".

Come vede il passato?
"Non ho nessuna inclinazione per la nostalgia. Non sono un passatista. Non ho lacrime da versare sul tempo che fu. Al tempo stesso reputo il passato una risorsa di senso e di identità".

Provi a spiegarcelo meglio.
"Gli antichi dicevano "niente di nuovo sotto il sole". Grande lezione di umiltà per una civiltà ammalata di futuro. Tra l'altro, non sappiamo neppure più bene dove sia".

E in questo "niente di nuovo" che cosa si nasconde?
" Qualcosa che ci appartiene e che resiste alla cancellazione del tempo. Ci sono dei profumi nell'aria, dei modi di vestirsi e di ragionare che non hanno niente a che vedere con il presente".

Come si rapporta all'attualità?
"Ne ho orrore. Il suo rumore mi rende impossibile scrivere".

Quanto contano le parole nel suo mestiere?
"Contano le parole giuste messe al posto giusto. Né una di più né una di meno".

Ci parli del suo lavoro.
"Cosa vuol sapere?"

Concretamente come nasce una canzone.
" Il primo atto per me è la musica. All'inizio c'è una sorta di ispirazione astratta. Un motivo che è lontano. Tutto il processo consiste nell'avvicinare questa entità ancora indefinita alle sensazioni che uno in quel momento prova. Poi c'è il testo che deve raccontare una storia, non importa quanto piccola, ma al tempo stesso compiuta e misteriosa".

Il fatto che le parole vengano dopo la musica rende la composizione più semplice?
"Non lo so, sinceramente. Ho sempre fatto molta fatica a scrivere. A volte le parole possono sembrare meno fluttuanti rispetto al testo musicale. Sento come un abbassamento della tensione acustica".

Cosa fa a quel punto?
"Mi fermo e poi ricomincio. Le parole devono avere il giusto ritmo e la giusta sequenza e purtroppo la lingua italiana non aiuta. È poco ritmica. Non è casuale che a volte mi venga la tentazione di canticchiare con un finto inglese. Di prendermi qualche libertà. Magari facendo enigmistica. Usando espressioni o parole a doppio senso capaci di restituire sensazioni antiche, come rebus da risolvere".

Mi fa un esempio?
"In Sotto le stelle del jazz c'è una frase: "Le donne odiavano il jazz, non si capisce il motivo". Mi pare evidente il doppio senso. "Motivo" inteso come causa, ma anche nel senso di motivo musicale. Naturalmente non sono enigmi come quelli pronunciati a Delfi, c'è nelle mie canzoni un'aria volutamente imprecisa".

Le piace la parola "cantautore"?
"Mi provoca un certo disagio, anzi fastidio. Sarebbe forse più giusto definirmi "autore-cantante", ma temo sia perfino peggio".

Chansonnier?
" Neanche, si lega a certe stagioni della musica francese, fatta di teatrini e pagliette. Grande tradizione!".

La Francia l'ha adottata.
" In un certo senso è vero. È stato il primo paese in cui mi sono esibito, con il privilegio di essere stato chiamato dai francesi. Lì davvero un successo lusinghiero".

Anche in America.
"Ho fatto in tutto quattro tournée americane. Andate bene. Vorrebbero che tornassi ma l'idea di affrontare alla mia età un viaggio lungo e impegnativo mi fa desistere. Non me la sento. Poi c'è il problema della lingua. Mi chiedo a volte cosa hanno capito delle parole. La musica diventa fondamentale per un mondo che non è il tuo".

La musica certo, ma anche la voce.
"Ovunque vada la voce mi accompagna. Come l'impronta di una mano".

Lei che voce ha?
"Una voce che guarda al Nord".

Cioè?
" Ho spesso pensato che il nostro Sud è madrigalista; mentre il Nord è paesaggista. Ecco, la mia voce ricorda i paesaggi, li racconta senza abbellirli".

Il paesaggio più prossimo a lei è Asti.
"Ho sempre vissuto qui, e sento che questo mondo mi ha trasmesso sensazioni difettose sul piano della comunicabilità. Sono rimasto, nonostante tutto, dentro una civiltà contadina".

È più un bene o un male?
" Diciamo che ho evitato, per quanto è stato possibile, il bagno freddo delle astrazioni. Se questo sia un bene non lo so. Quando ho scritto Genova per noi immaginavo una discesa nei dettagli di un modo esistenziale di proporsi della gente: non solo scontro di paesaggi ma anche di persone".

Cosa le resta di quella provincia?
" Ho molta più consapevolezza di com'era, di quanto sia adesso. Ogni rione o borgo aveva i suoi riti, il suo linguaggio. E poi c'erano personaggi che sembravano saltati fuori da una qualche favola. Personaggi divertenti. Ricordo dei mendicanti storici meravigliosi".

Cosa la colpiva?
" Una certa fantasia e bonarietà che vivevo come un arcobaleno dopo una mattinata di pioggia".

Nessuna retorica sul povero?
"No, perché faceva parte del nostro piccolo universo. Era familiare non invisibile come accade oggi".

E oggi che ne è della provincia?
" Omologata verso il basso. Parliamo tutti la stessa lingua senza nessuna inflessione o creatività".

E il suo pubblico?
"Il mio pubblico lo vivo nei concerti. Di solito noi artisti siamo afflitti da un narcisismo che ci porta a strafare e a pretendere piazze sempre più grandi, teatri sempre più affollati".

È la sindrome da successo. Come la vive?
" Ho sempre avuto un pubblico ristretto, uguale ovunque. Non mi monto la testa".

Ha scritto canzoni popolarissime e di successo.
"Anche perché le hanno cantate artisti più popolari di me. È chiaro che se Azzurro l'avessi interpretata solo io non avrebbe avuto l'impatto che ha avuto".

Quando scrive per altri cosa la preoccupa?
"Si scrive in maniera abbastanza incosciente. La verità è che uno pensa di offrire una canzone che abbia qualcosa di vincente".

Cosa pensa dei suoi colleghi?
" Il nuovo millennio mi lascia abbastanza indifferente. In campo musicale l'Italia non ha prodotto molto. Lo ha fatto però sul piano dei testi delle canzoni e soprattutto negli anni Settanta e Ottanta".

A chi pensa?
" Alla rivoluzione di alcuni artisti che non si sono spaventati di fare anche un po' di letteratura. Il pubblico capiva quello che c'era sotto alcune canzoni. Di fronte a dei testi di De André, Jannacci, De Gregori anche le persone più umili sentivano di essere cullate da qualcosa di importante".

Cosa pensa del Nobel a Bob Dylan?
"Non mi scandalizza. Anche se non sono affatto sicuro che i suoi testi siano così ricchi di letteratura".

Come è arrivato alla canzone?
"In un certo senso da forestiero. Da giovane me ne infischiavo della canzone. Mi piaceva il jazz e continua a piacermi. Ma poi ho capito che nella nostra musica leggera c'erano degli interpreti con una qualche verità nella voce: Celentano, Caterina Caselli, una certa Patty Pravo. E mi sono lasciato imbastardire da quella musica".

Se pronuncio la parola "stelle" cosa le viene in mente?
"Che ci aveva già pensato Dante".

È attratto dalla danza.
" Sono un pessimo ballerino. Attratto però da quelle coppie che nello spazio di tre minuti raccontano la loro vita con un movimento e un gesto".

Mambo, milonga, tango. Cos'è il Sudamerica per lei?
"È un mondo per molto tempo sconosciuto e che improvvisamente mi ha attratto per la sua fatalità. Certi ritmi mi obbligano a rendere vicino ciò che è lontano e lontano ciò che è vicino".

È un altro modo per dichiararsi uomo di provincia?
"Forse sì, e non me ne lamento. D'altronde, pur non essendo un grande viaggiatore mi sono sempre sentito cittadino del mondo. E la provincia è stata la lavagna su cui ho riportato i miei pensieri e le mie ombre".
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Paolo Conte: «Sono un enigmista e creo rebus. La musica? È una strega»
Ha compiuto 80 anni e non l’ha detto a nessuno. «Rileggo Fenoglio e amo Pascoli. Tifavo Torino, poi sono diventato milanista»
di Aldo Cazzullo, inviato ad Asti
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Capelli bianchi ma intatti, naso che ricorda un po’ quello di Bartali, «triste come una salita», occhi azzurri e «allegri da italiano in gita»: infatti è in partenza per Parigi, dove suonerà alla Philharmonie.

Tra i francesi che si incazzano/e i giornali che svolazzano/e tu mi fai: dobbiamo andare al cine/e vai al cine vacci tu! Zazzarazzà…

Questo verso a Parigi lo canta? Paolo Conte sorride: «No, questo no. Parigi per noi piemontesi è un po’ la capitale, mia nonna ogni tanto esclamava in francese. La prima volta ci andai all’inizio degli Anni 50. Mio fratello Giorgio e io eravamo sempre rimandati, a turno. Quando finalmente venimmo entrambi promossi, nostro padre ci regalò un viaggio in Francia. Atmosfera pesante: la memoria della guerra era viva, “les italiens” erano ancora quelli della pugnalata alle spalle; in un bar rifiutarono di servirci, finì quasi a pugni».

Sulla Topolino amaranto/si sta che è un incanto/nel quarantasei… Bionda non guardar dal finestrino, che c’è un paesaggio che non va/è appena finito il temporale, sei case su dieci sono andate giù…

«Della guerra sento ancora l’odore cattivo. Nella cascina di mio nonno — la Favorita, a Viattosto — passarono tutti: prima i nazisti, poi i repubblichini, quindi i partigiani, infine gli inglesi. No, noi non eravamo schierati. Mio zio Gino era sotto i tedeschi, in aeronautica, andai a trovarlo in una scuola trasformata in caserma. La vicina di casa era di Boves, il paese bruciato. Aveva cinque figli: tutti partigiani, tutti fucilati. La ricordo al telefono chiedere se avevano sofferto. Una cosa tremenda. L’unico bel ricordo: la mattina in cui la mamma mi sveglia e mi chiama alla finestra per vedere i tedeschi ritirarsi. Ho ritrovato un’eco di queste storie nei libri di Pavese; ma col tempo il suo linguaggio americanoide ha influenzato quello giornalistico, e non mi cantava più. E poi Pavese era l’intellettuale di Torino che tornava in collina alla ricerca di miti. Il vero outsider era Fenoglio. Ogni tanto rileggo Un giorno di fuoco: “Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta…”. Ho amato Hemingway, Simenon, ma soprattutto Pascoli. Quando facevo il militare a Cosenza e poi a Pisa, i commilitoni copiavano le lettere d’amore alle fidanzate da un libretto che a sua volta copiava spudoratamente le rime e i ritmi di Pascoli».

E tramonta questo giorno in arancione/e si gonfia di ricordi che non sai/mi piace restar qui sullo stradone/impolverato, se tu vuoi andare vai!/E vai! Che io sto qui e aspetto Bartali...

«Lo so che quasi tutti i piemontesi erano per Coppi, tecnicamente il più forte. Ma Fausto era un superuomo, aerodinamico, lunghissimo; Gino era l’uomo della strada. Anche se in realtà Bartali è una canzone sulla distanza tra maschio e femmina: lei è scontrosa, le scappa la pipì, vuole andare al cinema; lui attende il campione godendosi il silenzio tra una moto e l’altra». Un senso di estraneità come quello tra piemontesi e liguri in Genova per noi. «Di quella canzone gira un testo sbagliato: Genova non ha i giorni tutti uguali; sono io che le chiedo di tornare ai nostri giorni tutti uguali. Anche i liguri sono un po’ ritrosi, come noi; ma il mare ha tutta un’altra apertura di sogno. E la luce è completamente diversa».

È grigia la strada ed è grigia la luce/e Broni Casteggio Voghera son tristi anche loro…

«Broni Casteggio Voghera sono i paesi che si incontrano andando da Asti a Parma, dove mi sono laureato». La canzone è dedicata alla fisarmonica di Stradella. Le piace la fisarmonica? «Da ragazzo la odiavo. Mi pareva un simbolo della povertà italiota; solo dopo ho scoperto la sua poesia nascosta. Sognavo il jazz Anni 20, suonavo il trombone nell’Original Barrelhouse Jazz Band, insomma una banda da bordello, poi il piano nella Lazy River’s Bands Society: il fiume pigro poteva essere il Mississippi, ma più facilmente il Tanaro. Una sera incrociai un ragazzo romano con la faccia da bambino, tutto ricci, vivacissimo, pieno di talento: suonava la chitarra nei Campioni, l’orchestra di Tony Dallara, si chiamava Lucio Battisti».

Cerco un po’ d’Africa in giardino/tra l’oleandro e il baobab/come facevo da bambino/ma qui c’è gente non si può più/stanno innaffiando le tue rose/non c’è il leone, chissà dov’è…

«La musica per me era una strega. Non un mestiere serio, come il panettiere, il muratore, il notaio. In famiglia erano tutti notai, e io ero a Roma a dare l’esame di Stato quando arrivò il telegramma di mio fratello: “Probabile Celentano”. Era il 1967, Adriano cercava una canzone da cantare insieme con la nuova ragazza del Clan, Claudia Mori: La coppia più bella del mondo. Io avevo scritto la musica, Luciano Beretta le parole». Com’è il suo rapporto con Celentano? «Buono, distante. Mi è sempre stato simpatico nella sua follia. Siamo tutti e due del capricorno, nati sotto Saturno: caratteri difficili, per sé e per gli altri; solitari, con un velo di malinconia. Andai qualche volta a trovarlo nella casa dove stava sempre chiuso, sopra Lecco, tra laghetti di montagna. Era preso da manie religiose, mi diceva frasi tipo “il paradiso è un cavallo bianco che non suda”. Tentava di convincermi, io recalcitravo». Lei non ha fede? «A ondate». La domenica andava davvero all’oratorio? «Certo. Ma non a chiacchierare con un prete; a giocare a pallone. Era l’unico campetto con le porte».

Azzurro/il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me/mi accorgo di non avere più risorse senza di te…

Nel fatale 1968 lei scrisse la canzone italiana più eseguita al mondo, più di Volare e O sole mio. Perché non la cantò anche? «A cantare non pensavo proprio. L’interprete ideale era Adriano, artista popolare per eccellenza. Papà era morto all’improvviso, bisognava lavorare. La prima volta salii sul palco nel 1976, al premio Tenco, ma fu una trappola di Amilcare Rambaldi: pensavo di trovarmi in un gruppo di amici, invece all’Ariston c’erano duemila persone. Il ghiaccio era rotto. Tenni i primi concerti continuando a fare l’avvocato. La pratica legale mi è sempre servita anche per scrivere canzoni. L’uomo del Mocambo è nato quando curavo pratiche fallimentari: era l’avventuriero appunto fallito, improbabile, sognatore. Messico e nuvole nasce anche pensando alle coppie che andavano a divorziare in Messico, “la faccia triste dell’America”. A volte si usavano metodi più drastici, come in Onda su onda».
Son caduto dalla nave son caduto/mentre a bordo c’era un ballo…
Ma è caduto o l’hanno spinto? «Questo non lo so neppure io». Certo il protagonista trova la felicità: «Steso al sole ad asciugare il corpo e il viso/guardo in faccia il paradiso». Altre volte la felicità è nell’abbandono, come in Wanda: «Carezze qui, carezze là…». Come si chiama sua moglie, in realtà? «Egle. È una lunga storia, ci siamo sposati nel 1975». E Vieni via con me, come va a finire? «È la proposta di una fuga d’amore. Probabilmente accolta, visto che spunta un accappatoio azzurro».

Nel tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche…

In effetti la vita è fatta da tempi lunghi, lenti, noiosi, e da lampi decisivi. «Ma io non volevo dire quello. Parlavo proprio della Settimana enigmistica. Sono un enigmista, creatore di rebus. In casa aspettavamo con ansia il giorno benedetto in cui usciva la Settimana. Certo è anche una metafora; ma non della perdita di tempo, semmai dell’impossibilità di capire la vita».

Il maestro è nell’anima e dentro all’anima per sempre resterà!

Chi è il maestro? «Può essere Verdi, Toscanini, Von Karajan, Muti. Un direttore dal gesto energico. Muti l’ho conosciuto al festival di Ravenna, è un grande. I cantautori li ho incontrati ai tempi della Rca: ero amico di Lucio Dalla, Renato Zero è venuto ai miei concerti. Ma il mio preferito era Jannacci, con la sua poesia astratta e nello stesso tempo antica». E la sua squadra del cuore qual è? «Prima di Superga eravamo tutti granata. Ricordo la notizia alla radio, mio fratello e le altre voci che si rincorrono: “È morto il Toro, è morto il Toro…”. Poi diventammo juventini». Com’è possibile? «Eravamo bambini. Se è per questo, alla fine sono diventato milanista». In che modo? «Il nostro vicino d’ombrellone, a Sestri Levante, era il commendator Menni, dirigente del Milan, che vedendomi palleggiare sulla spiaggia insisteva perché passassi dalla sua parte. Io resistevo. Poi con mio zio andai a Torino a vedere Juve-Milan: 1 a 7; il Gre-No-Li fece meraviglie. A fine partita, cercando l’auto nella nebbia, mi imbattei nel commendator Menni: “Paolo, hai visto il Milan?”. Mi parve un segno».Capelli bianchi ma intatti, naso che ricorda un po’ quello di Bartali, «triste come una salita», occhi azzurri e «allegri da italiano in gita»: infatti è in partenza per Parigi, dove suonerà alla Philharmonie.


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