Visualizzazione post con etichetta architettura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta architettura. Mostra tutti i post

mercoledì 18 aprile 2018

Franz Falanga

Franz Falanga (1933 - 2018): architetto, musicista, insegnante, uomo di profonda cultura,  già professore presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia e Bari.
Un uomo intelligente, ironico, sensibile, con moltissime passioni. Due in particolare: la musica e l’insegnamento. Aveva la capacità di creare connessioni, fra gli argomenti come fra le persone.


Ciao caro amico. Mi mancherai ❤️
©Marilena Nardi


IL MESTIERE DELL’ARCHITETTO

Per prima cosa, “mestiere” nobile parola è. Oggi vorrei raccontarvi le caratteristiche che, secondo me, dovrebbe avere un architetto. E’ lapalissiano che, se dovesse averle tutte, non necessariamente sarebbe un buon architetto, nel migliore dei casi sarebbe un discreto mestierante.

La prima regola è: “leggere, leggere, leggere, leggere, leggere, leggere, leggere” non importa che cosa, qualunque argomento va bene.

La seconda regola è: “conoscere il meglio possibile la vita e le abitudini e quant’altro degli esseri viventi (fra i quali ci sono anche gli esseri umani) che dovranno vivere nei contenitori progettati dall’architetto”. Quando parlo di contenitori parlo di appartamenti, di case, di palazzi, di  città.

La terza regola è: “il nemico mortale di ogni architetto è la presunzione, sia la sua che quella degli altri”.
La quarta regola è: ”avere spiccatissimo il senso della storia e combattere alla morte quelle persone che tentano, quasi sempre con successo, di “cancellare” il senso della storia dalle altrui coscienze, e, ahinoi, ce ne sono moltissime e generalmente ci riescono”.

La quinta regola è: “osservare con estrema attenzione le “mutazioni” che gli architetti, lei o lui, noteranno nel corso della propria esistenza e cercare di capire se queste mutazioni sono verso l’alto o verso il basso, va da sé che bisognerà sforzarsi di ben capire perchè sia nata la mutazione medesima”.
La sesta regola è: “avere sempre degli ottimi rapporti con i muratori, con gli ebanisti, con i fabbri, con i tecnici idraulici e con i tecnici elettrici e quant’altri, che, nel loro campo, certamente ne sanno molto ma molto più dell’architetto stesso.      

La settima regola è: “avere il senso delle cose”.

L’ottava regola è: “se vi dovesse capitare la progettazione di qualche oggetto che non avete mai incontrato nel corso del vostro lavoro quotidiano, prima di rifiutarlo o di accettarlo, chiedete informazioni sull’argomento, senza avere nessuna remora, rivolgendovi a colleghi di grande competenza e di grande bravura. Ricordati sempre di farsela con quelli migliori di te e di offrirgli da bere”.

La nona regola è: “riuscire a comprendere il momento quando un qualsivoglia progetto, è terminato ed è quindi giunta l’ora di metterlo in atto”.

La decima regola è: “non abbiate timore di dire NO a qualche cliente. Ricordarsi sempre quello che il grande architetto Sullivan disse ad un suo cliente “signore, lei avrà quello che NOI (dello studio) le daremo”.  
Ed infine l’ultima regola, ma non per questo meno importante delle altre: “ anche a costo di morire di fame, mai accettare o dare  mazzette”.

Ce ne sono ancora centinaia di altre regole, ma più o meno, queste sono quelle fondamentali. Se si osserveranno questi principi, si potrebbero evitare errori di grammatica, non garantisco che si possano evitare errori di sintassi, e vi garantisco una vita di stenti. Ricordatevi che gli architetti mediocri, ignoranti, corrotti e corruttori, quelli sì che diventano ricchissimi. Così come vi  consiglio di stare molto attenti a quei vostri colleghi che vi dovessero dire: “non ho più il tempo di leggermi un buon libro. Così, en passant, sporcarsi le mani con la politica, partecipare,  partecipare, partecipare.

E adesso auguri! Sono cazzi vostri!
franz falanga
Franz Falanga
© Marilena Nardi
Francesco Falanga, detto Franz, nato a Bari, si era laureato a Venezia in architettura con il prof. Giuseppe Samonà, durante la straordinaria stagione in cui lo stesso Samonà, Carlo Scarpa e Bruno Zevi, protagonisti della cultura architettonica italiana del novecento, insegnavano all'IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia). E' stato professore nella cattedra di Elementi di architettura e urbanistica all'Accademia di belle arti di Venezia. Ha insegnato, negli anni precedenti il 1996, all'Accademia di belle arti di Bari. Ha sempre combattuto contro la cancellazione del senso della storia che la società dell'apparire e del consumare ad ogni costo pilota quotidianamente con pervicace costanza, facendo più danni di una guerra in special modo alle ultime generazioni. Questo immenso continente giovanile, se non torniamo tutti al più presto a privilegiare, come scriveva Machiavelli, le forze di dignità della conoscenza e della creatività, rischia di essere divorato e digerito senza scampo da questa società, indubbiamente molto squinternata e molto pericolosa con i più deboli e, contemporaneamente, molto condiscendente con i più forti.
Insegnare ad insegnare, in Italia è pratica quasi inesistente. Una gran percentuale degli addetti alla trasmissione della cultura, pur essendo di grande eccellenza professionale, sono però privi delle tecniche della trasmissione del sapere. L'insegnamento ben fatto e ben curato è quindi affidato al caso e alla buona volontà dei singoli che fanno quello che possono. Ma così non si progredisce e non si preparano al meglio le generazioni future. Non sarebbe male se, in ogni disciplina universitaria, si implementassero dei corsi di didattica della disciplina medesima. Tutto sta ad incominciare, tenendo presente che i futuri docenti di didattica dovranno "realmente" essere in grado di farlo. Il problema è, infatti, tutto lì, nella parola "realmente".
(continua)
-

Le Invarianti nell' Architettura raccontate da Franz Falanga



I suoi libri editi ADDA
Jazz a Bari: intervista a Franz Falanga, uno tra i pionieri di Bari
Intervista a Franz Falanga

giovedì 31 marzo 2016

Zaha Hadid

"I'm not outside, I'm on the kind of edge, I'm dangling there. I quite like it.
I'm not against the establishment per se. I just do what I do and that's it."
Zaha Hadid
fonte: Matthew St.Leger


Oggi il mondo dell'architettura piange Zaha


Citazione
La Regina è morta.

Comunque la pensiate, era una donna nata in un paese islamico che si è affermata in un mondo prevalentemente maschilista come quello dell'Architettura.

Prima donna in assoluto a vincere un Pritzker.

Ciao Zaha.

http://www.internazionale.it/notizie/2016/03/31/zaha-hadid-morte

http://www.telegraph.co.uk/culture/art/architecture/11885996/Zaha-Hadid-is-first-woman-to-win-RIBA-Royal-Gold-Medal.html

http://www.telegraph.co.uk/travel/galleries/Zaha-Hadids-greatest-buildings/


Zaha Hadid
fonte : CO2








fonte: Zaha Hadid, architect of the Sheikh Zayed Bridge









Fonte: AJEduardo





by Jan Op De Beeck



giovedì 3 settembre 2015

Milano, Palazzo Reale: "Giotto l'Italia"


La mostra, posta sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana, promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e dal Comune di Milano – Cultura, con il patrocinio della Regione Lombardia, è prodotta e organizzata da Palazzo Reale e dalla casa editrice Electa. Il progetto scientifico è di Pietro Petraroia (Éupolis Lombardia) e Serena Romano (Università di Losanna) che sono anche i curatori dell’esposizione.

La mostra, con allestimento di Mario Bellini, ha un motivo particolare per essere realizzata in Palazzo Reale: esso infatti ancora ingloba strutture del palazzo di Azzone Visconti, ove, negli ultimi anni della sua vita, Giotto venne a realizzare due cicli di dipinti murali, oggi perduti.

Il titolo, "Giotto, l’Italia", intende appunto sottolineare il ruolo rivoluzionario del pittore fiorentino chiamato da cardinali, ordini religiosi, banchieri, dal re di Napoli e dal signore di Milano, in molti luoghi e città d’Italia. Giotto infatti ovunque si sia trovato a lavorare ha avuto la capacità di attrarre fortemente le scuole e gli artisti locali verso il suo stile innovatore, cambiando in modo definitivo i tragitti del linguaggio figurativo italiano.






Polittico Baroncelli si ricongiunge al Dio che rientra da San Diego!
foto Cipolletta Raffaele

La mostra a Palazzo Reale riunisce 14 opere, prevalentemente su tavola, nessuna delle quali prima esposta a Milano: una sequenza di capolavori assoluti mai riuniti tutti insieme in una esposizione. Ognuno di essi ha provenienza accertata e visualizza quindi il tragitto compiuto da Giotto attraverso l’Italia del suo tempo, in circa quarant’anni di straordinaria attività.

Si attraverseranno dapprima le sale dedicate alle opere giovanili: il frammento della Maestà della Vergine da Borgo San Lorenzo e la Madonna da San Giorgio alla Costa documentano il momento in cui il giovane Giotto era attivo tra Firenze e Assisi. Poi il nucleo dalla Badia fiorentina, con il polittico dell’altar maggiore, attorno al quale saranno ricomposti alcuni frammenti della decorazione affrescata che circondava lo stesso altare. La tavola con Dio Padre in trono proviene dalla cappella degli Scrovegni e documenta la fase padovana del maestro. Segue poi lo straordinario gruppo che inizia dal polittico bifronte destinato alla cattedrale fiorentina di Santa Reparata, e che ha il suo punto d’arrivo nel polittico Stefaneschi, il capolavoro dipinto per l’altar maggiore della basilica di San Pietro in Vaticano.
Accanto al polittico è esposto, evento straordinario, il frammento affrescato con due teste di apostoli o Santi, proveniente dalla basilica di San Pietro, opera di Giotto anch’essa commissionata dal Cardinal Stefaneschi.
Il percorso espositivo si completa con i dipinti della fase finale della carriera del maestro, che precedono di poco le sue opere milanesi nel palazzo di Azzone Visconti: il polittico Baroncelli dall’omonima cappella della basilica di Santa Croce a Firenze, che grazie a questa mostra verrà temporaneamente ricongiunto con la sua cuspide, raffigurante il Padre Eterno, conservata nel museo di San Diego in California e il polittico di Bologna, che Giotto dipinse nel contesto del progetto di ritorno in Italia, a Bologna, della corte pontificia allora ad Avignone.
Prestiti così straordinari si devono alla collaborazione lungimirante di istituzioni e proprietari, tra cui un ruolo determinante è stato quello dei Musei Vaticani, e al supporto scientifico e tecnico di molti uffici e istituti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

****

****
I grandi capolavori di Giotto a Milano, il backstage della mostra

Dal sito del Ministero dei Beni Culturali:
Giotto, l’Italia è il grande evento espositivo che concluderà il semestre di Expo 2015 a Palazzo Reale di Milano.

La mostra propone al pubblico cosmopolita dei visitatori di Expo di incontrare i grandi capolavori dell’artista
fondatore della cultura figurativa italiana, riunendo 13 opere, prevalentemente su tavola, nessuna delle quali
 prima esposta a Milano. 

Una sequenza di capolavori assoluti mai riuniti tutti insieme in una esposizione. Ognuno di essi ha provenienza
 accertata e visualizza quindi il tragitto compiuto da Giotto attraverso l’Italia del suo tempo, in circa quarant’anni
 di straordinaria attività.
Redattore: RENZO DE SIMONE

Informazioni Evento

Data Inizio: 02 settembre 2015
Data Fine: 10 gennaio 2016
Costo del biglietto: 12,00 euro; Riduzioni: 10,00 euro
Prenotazione:Nessuna
Luogo: Milano, Palazzo Reale
Orario: lunedì: 14.30-19.30;
martedì, mercoledì, venerdì e domenica: dalle 9.30 alle 19.30;
 giovedì e sabato: 9.30-22.30
Telefono: 02 92800821
E-mail: info@milanoguida.com
Sito web: http://www.mostragiottoitalia.it/

Dove

Palazzo Reale
Città: Milano
Indirizzo: Piazza del Duomo, 12
Provincia: MI
Regione: Lombardia



Nota sull'allestimento:

La luce di Giotto tra penombra e altari di ferro
di Mario Bellini
Giotto in mostra a Palazzo Reale di Milano? Una bella sfida. Perché richiede di immaginare
una “messa in scena” dinamica della sua vita e delle sue opere.

Teatro. Una sequenza di stanze, spaziose e “palaziali” fin che si vuole, ma intrinsecamente
estranee allo spirito e all’aura degli edifici di culto per cui i capolavori di Giotto furono
concepiti.

Copione. La vita di successi e grandi commesse di un artista che anticipa il Rinascimento
italiano, chiamato a lavorare da Papi, prelati e benefattori in tutta Italia, tra Padova, Firenze,
Assisi, Roma, Napoli.

Protagonisti. Cinque maestosi polittici da altare (di cui due bifacciali) policromi su fondo
oro, due Madonne, Dio Padre in trono, frammenti di affreschi strappati.

Scenografia. Non trattandosi di un vero teatro, il Palazzo Reale è trasformato per divenire
teatro totale, luogo di incontro e scambio tra gli spettatori (noi) e i personaggi (le opere di
Giotto) con la forza di due poderose macchine sceniche: la luce, in tutte le sue manifestazioni
che includono anche penombra, ombra, oscurità e controllo dei riflessi e del colore. La luce,
dunque, e una materia primigenia: il ferro vivo che si ossida durante la laminazione a 1200
gradi, divenendo elemento nobile, unico e solo a fare da sfondo, incastonatura, basamento
solido che allude agli altari e a fare da superficie connettiva di opera in opera, di scena in
scena, di stanza in stanza, lungo i nostri passi, sotto i nostri piedi.
Nessun colore, nessun tessuto, nessun legno, nessuna morbidezza, nessun marchingegno di
supporto.
Silenzio. Parla la pittura di Giotto, ci guida la luce, ci sorregge il ferro.


Architect
Mario Bellini Architects

Design Team
Mario Bellini  with Raffaele Cipolletta

Project Team
Francesco Savoini

Consultants
Graphic Design: Tassinari / Vetta, via Rossini, 16 Trieste 
Curators: Pietro Pietraroia, Serena Romano

Exhibition fit out
Articolarte S.r.l., Via Delle Marmorelle nuova, 502 Laghetto di Monte Compatri (Roma)

Lighting 

Reggiani Illuminazione S.p.a., Viale Monza, 16 Sovico (MB)

The exhibition, sponsored by the Ministry of the Heritage, Cultural Activities and Tourism and the City of Milan–Culture, and devised by Éupolis Lombardia to a scholarly project by Pietro Petraroia and Serena Romano, who are also the curators, it is produced and organized by Palazzo Reale and the publishing house Electa. The exhibition is an outstanding chapter in Expoincittà, the calendar of events part of the city’s cultural life during the Expo semester. Giotto, l’Italia is the major exhibition that will conclude the semester of Expo 2015 at the Palazzo Reale in Milan.
The exhibition offers the cosmopolitan public of visitors to Expo the opportunity to view the great masterpieces of the founder of Italian figurative culture, Dante Alighieri’s alter ego in the field of painting, bringing together 13 works, mostly on panel, none of which have ever been exhibited in Milan before. A sequence of masterpieces never presented in a single exhibition.
The provenance of each is established so that together they document Giotto’s travels through the Italy of his time during some forty years of outstanding achievement.
The exhibition is guided by a prestigious Scholarly Committee comprising the directors of Italian institutions that over the years not only have contributed to the preservation and protection of Giotto’s works, but have also to a very remarkable degree enlarged our knowledge and scholarly and technical understanding of the master’s painting, with internationally significant and advanced studies and contributions.
The Committee consists of the president Antonio Paolucci and Cristina Acidini, Davide Banzato, Giorgio Bonsanti, Caterina Bon Valsassina, Gisella Capponi, Marco Ciatti, Luigi Ficacci, Cecilia Frosinini, Marica Mercalli and Angelo Tartuferi.

The exhibit design is by Mario Bellini.
http://www.bellini.it/exhibitions/Mostra_Giotto.html

Giotto, l'Italia
2.9.2015 – 10.1.2016
Palazzo Reale, Milano

domenica 16 febbraio 2014

Ritratto di Fuksas

Il 2 febbraio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Massimiliano Fuksas

"Una struttura non deve solo funzionare. Deve dare un'emozione."


Fuksas: "Dall'architettura
ho imparato che l'ordine
conta quanto il caos"
La famiglia, la politica, l'arte: ricordi nel tempo e nello spazio

 Di Antonio Gnoli
In questa piccola storia orale affiora, ogni tanto, l'idea che il successo sia solo un ingrediente di una personalità che ha cercato altre ragioni nella vita. Almeno è ciò che Massimiliano Fuksas lascia filtrare di sé. Con indubbia abilità. È come se tutto ciò che vedo, che mi fa vedere, sia il frutto prospettico di una lieve illusione. Non è questo che in fondo regalano gli architetti più dotati: una solida e fondata (o fondabile) illusione? E allora eccomi calato, non lontano da Campo dè Fiori, nei tre piani di morbidezza che sono poi quelli dello studio: bello, accogliente e abitato da una legione di giovani che si danno da fare intorno ai tanti progetti che Fuksas sta realizzando. Gli chiedo com'è il rapporto con questa generazione che ci ostiniamo a definire senza futuro. "Se ho cento persone qui, altre cento divise tra Parigi e la Cina, e quasi tutte sotto i trent'anni, è segno che qualcosa si muove. Al di là della crisi. Ma l'architettura è un mondo strano. Abitato da nani nelle viscere delle montagne e da elfi nelle foreste".

Un mondo fantastico?
"Diciamo dove la fantasia può ancora galoppare. E i giovani possono ritagliarsi la loro parte".

Di sogni ne sono rimasti pochi.
"Però è l'unica merce non ancora venduta in saldo. Penso alla mia storia come a una successione di eventi incompleti che i sogni hanno colmato di gioia e delusione. Piccolo inciso. A me non frega niente se un sogno si realizza o meno. Importante è averlo. È la risorsa inesauribile dei miei perché. Dalle mie origini in poi".

Da dove viene? Il nome non ha nulla di italiano.
"Nel periodo luterano, la mia famiglia, ebraica, emigrò dalla Germania in Lituania. Il mio bisnonno era un mercante di sale a Kaunas. Poi si trasferì a Vilnius. Fece abbastanza soldi per mandare i figli all'università. Ma era il periodo del dominio zarista e gli ebrei non potevano accedervi. Perciò spedì mio nonno ad Heidelberg. Dove conobbe Elisa e la sposò. Nacquero due figli: mio padre Raimondas e Anatole Pierre".

Che anni erano?
"Gli anni Dieci dello scorso secolo. Nel 1914 scoppiò il conflitto. Nel corso della prima settimana di guerra il nonno, medico, fu investito da una bomba. Una scheggia lo colpì in pieno e morì dissanguato. Nonna Elisa si rifugiò a Mosca con i due figli. Sposò in seconde nozze Harry Basin, direttore delle acciaierie moscovite. Anni tumultuosi. Poi, nel 1918, la Lituania proclamò l'indipendenza. Con il nuovo marito Elisa tornò a Vilnius. Non era la fotografia di una famiglia felice".

Perché?
"Perché Harry era un uomo autoritario e duro. Pretendeva che il figliastro studiasse ingegneria. Mio padre cominciò a detestarlo e alla fine decise di andarsene a Roma. Sulle orme del padre studiò medicina. Conobbe mia madre. Felicità presto interrotta dalle leggi razziali, dalla guerra e da tutte le aberrazioni legate al conflitto e al fascismo. Superammo anche quelle. Non bastò. Nel 1950 papà morì. Avevo sei anni".

Cosa faceste?
"La mamma accettò l'invito della nonna, che viveva non lontana da Vienna. La città divisa in zone di influenza. Eravamo nella parte inglese. Sebbene fossi nato a Roma avevo ancora il passaporto lituano e per questo non potevo accedere alle altri parti della città. Insomma, dopo un po' tornammo a Roma. Andammo a vivere dalle parti del Gianicolo, vicino a Villa Sciarra. Iniziai le scuole elementari al Francesco Crispi. Una delle prime cose che chiesi fu chi era Crispi. Immaginavo fosse il proprietario della scuola. La mamma mi disse vagamente che era stato uno statista italiano. Ma fu Giorgio Caproni a fornirmi qualche dettaglio in più".

Caproni il poeta?
"Proprio lui. Fu il mio maestro alle elementari. Un giorno ci spiegò che gli uomini sono strani. E che la coerenza non è quasimai il loro forte. Ci raccontò che Crispi era stato rivoluzionario da giovane. Che aveva perfino seguito Garibaldi nella spedizione dei Mille e che da vecchio, a capo del Governo, stroncò i primi scioperi operai. Insomma diventò "pompiere"".

E lei ha paura di fare la stessa fine?
"Almeno sul piano politico non ho mai cambiato opinione. Le ingiustizie non mi piacevano quando avevo vent'anni e non mi piacciono ora che ne ho settanta".

Com'era Caproni insegnante?
"Grande sensibilità e ironia sommessa. Mi prese a ben volere. Forse incuriosito dalle mie origini o dalla mia timidezza. Non lo so. A volte mi invitava a casa. Viveva in un tristissimo palazzo in via dei Quattro Venti. Ricordo l'edificio in mattoni, il portone incongruamente monumentale, le piccole finestre verdi, l'appartamento povero. Una vita grama segnata però da due grandi passioni".

Quali?
"Il violino che ogni tanto suonava e il treno. Possedeva i piccoli treni Rivarossi. Confesso che ero più interessato a questi giocattoli che non alle sue poesie o alle sue traduzioni. Un pomeriggio mi parlò della dolce bellezza della lingua francese. Era un uomo semplice. Seppi in seguito che aveva sofferto enormemente. Nella suo dolore rispecchiò il mio, di bambino solo. In un certo senso mi adottò".

Ha avuto un'infanzia complicata?
"No, semmai disciplinata da una madre forte. Avevo un carattere ombroso. Ero magro, fragile e soprattutto mi sentivo solo al mondo. Con il tempo ho imparato a convivere con questa solitudine".

Non dà l'impressione di un uomo solo.
"La mia socialità è forzata. Per il mestiere che faccio devo incontrare le persone, frequentarle. Ma vivo meglio con me stesso".

Come è giunto al mestiere di architetto?
"Non era tra le mie aspirazioni. La sola cosa che intendessi fare era l'artista. A 16 anni, grazie all'interessamento di Giorgio Castelfranco, andai a lavorare con Giorgio De Chirico. Mi sentivo pittore. Stare nella bottega di un grande artista, pensavo, era il modo migliore per migliorarsi".

Non andò così?
"Scartabellavo nell'archivio, rassettavo. Niente di creativo. E poi non si capiva mai se il maestro era contento. Mascherava la sua stizza permanente sotto un sorriso sornione. Per farla breve, finii il liceo - al Virgilio dove, tra l'altro, ebbi come professore di italiano un giovane Alberto Asor Rosa - e dissi a mia madre che volevo fare il pittore. Lei mi guardò e tutta seria commentò: vedo già l'ombra del fallimento dietro le tue spalle. Fu scoraggiante".

Ma aveva torto?
"Penso che valutasse una professione in termini di riuscita sociale. Pochi giorni dopo le risposi dicendole che mi sarei iscritto ad architettura. Fu laconica: ecco, è già meglio. Insomma feci rapidamente i miei studi. Ebbi la fortuna di scoprire, nella Londra degli anni Sessanta, il lato creativo dell'architettura. Di innamorarmi di una ragazza danese, raggiungerla a Copenaghen, e alla fine lavorare negli studio di Henning Larsen e poi in quello di Jorn Utzon ".

In che anno si laurea?
"Nel 1969. Ero uno dei pochi che non voleva fare carriera universitaria ma costruire. Fui considerato un traditore ideologico".

In che senso?
"Si pensava che l'architetto dovesse essere testimone della crisi. In linea con l'idea della morte dell'arte. Non credevo a quelle stronzate e sostenevo che se intraprendi una professione devi anche dimostrare cosa sai fare".

Cos'è per lei l'architettura?
"Non lo so, ogni volta mi trovo a dire una cosa differente. Però non può essere solo una struttura che funziona. Deve dare un'emozione. Essere il risultato di una passione".

Niente di razionale?
"La razionalità conta tanto quanto il caos".

Si spieghi.
"Senza il disordine non nasce niente. La disciplina, le scuole vanno bene. Ma fino a un certo punto. Poi ci sei tu e un oceano di passioni. Non c'è niente di romantico in ciò che dico. Ma devi seguire i flussi. Non sono mai stato il seguace di nessuno. Ho preso un po' da tutti. Come il surf. Vai sulle onde se ci sono le onde".

Qualche nome?
"Louis Kahn mi insegnò il passaggio di scala; da Wright ho appreso la varietà dei soggetti; da Le Corbusier l'aspetto scultoreo e plastico; da Prouvé il lavoro nel dettaglio. Ma non li ho sposati. Semmai li ho traditi".

E tra gli italiani?
"Ammirazione per Gio Ponti. Un dandy meraviglioso. Capace di passare, con la stessa naturalezza, dal cucchiaino alla città. E poi Libera, Terragni, Piacentini. Una generazione straordinaria".

Cosa è lo spazio per lei?
"Non è la cosa più importante. È un mito che l'architetto si occupi di spazi. Semmai è lo spazio che si occupa di te".

E la luce?
"Fondamentale. Non ci sarebbe architettura senza la luce che esalta i volumi e il colore".

Accosterebbe la luce al divino?
"No. Piuttosto la vedrei come una realizzazione dello spirituale. Il divino, o meglio il sacro, non mi coinvolge. Richiede una fede che non ho. La spiritualità è un'esperienza che anche un non credente può vivere. Ci deve essere qualcosa che superi il pragmatismo. Quando l'architettura riesce ad andare oltre le sue funzioni, allora si scopre lo spirituale".

Prima faceva l'elogio del disordine. Da dove le nasce?
"Da una forma di indisciplina cronica".

Come quella che esibì negli anni della contestazione?
"Me lo chiede come se abbia commesso chissà cosa".

Si dice che fosse tra i più determinati.
"Non ho mai preso in mano un bastone. I poliziotti ci scacciarono dall'università di Valle Giulia, protestammo, ci inseguirono manganellandoci senza pietà. Vedere quei vecchi celerini, spesso con la pancia, che arrancavano era uno spettacolo terribile. Ricordo che con le mie Clark ai piedi non facevo che scivolare. E pensavo: ma cosa cazzo si inseguono, cosa cazzo si picchiano. Avevo il cuore in gola e l'adrenalina che girava a mille".

Il bello della rivolta?
"Era un mondo che stava cambiando".

Pasolini pensò che stesse cambiando in peggio.
"E aveva torto. Diceva che eravamo borghesi e fighetti. Tra di noi c'era il proletariato che cresceva e, soprattutto, piccola borghesia. Ho polemizzato con lui".

Lo ha conosciuto?
"Non bene. Vivevamo nello stesso quartiere. Abitava nella stessa palazzina di Attilio Bertolucci. Una volta lo incrociai mentre, con la madre, andava da Caproni. Ricordo che facemmo una partita di pallone in un campetto di periferia. Vidi una figura nervosa, muscolosetta, dotata di un indiscutibile stile. Finalmente rilassata. Poi, nello spogliatoio, si mise a fare a "dito di ferro" con dei compagni di squadra. Gli piaceva la vigoria fisica e la sfida virile".

Politicamente che giudizio ne dà?
"Aveva posizioni apocalittiche. Diverse comunque dal mio modo di essere di sinistra".

Cosa intende per "mio modo"?
"Dopo tante "seghe" mentali, alla fine penso che la sinistra va giudicata a seconda di quanti "no" dice. Se pronuncia troppi "sì" occorre diffidare".

Si sente un uomo contro?
"Credo che esistono ancora le ingiustizie e che possono essere contrastate. L'infelicità fa male a tutti: sia a chi la subisce direttamente, sia a chi la vive di riflesso".

Però il peso è diverso. Come vive i suoi privilegi?
"Quali?"

È ricco, famoso e per giunta di sinistra.
"Frank Gary una volta mi disse: fai tutto quello che devi, e se hai successo non te ne vergognare. L'importante è che non venga dalle cattive azioni".

Ha mai progettato per un costruttore, un palazzinaro?
"Mai. Non è il mio mondo. Quasi tutto il lavoro, a parte qualche cliente privato, passa attraverso i concorsi".

Le capita di dire: ho sbagliato?
"Sono un accumulo di errori. Se non ci fosse Doriana, mia moglie, a ricordarmelo e a correggermi finirei per perdermi. Lei mi protegge da me stesso".

Si sente psicologicamente dipendente?
"Si dipende da chi si ama. Mia madre ha toccato i 97 anni e non riesco a immaginare di poter fare a meno della sua onesta durezza".

È sposato da quanto tempo?
"Con Doriana da 34 anni. Prima c'è stata un'altra moglie. E quattro figli equamente ripartiti".

Come sono i rapporti?
"Con uno non ci parliamo da anni. E lo considero una mia sconfitta. Con gli altri va bene. Elisa ha da poco scritto un libro. Generazionale. Credo parli anche di me. E, sospetto, non del tutto favorevolmente".

Teme il giudizio degli altri?
"Dovrei temere quello di Dio. Ma sono ateo. Preferisco che si parli bene di me. Non sono di quelli che dicono: purché se ne parli".

 ---------------------------------------------------------------------
Ti potrebbero interessare:





Ritratto di  Luciana Castellina

lunedì 30 settembre 2013

Il video di come sarà terminata la cattedrale di Gaudì



La Sagrada Familia di Barcellona, dell’architetto Antoni Gaudì , icona universale della città catalana e del non finito, verrà finalmente completata nel 2026. L’annuncio è stato dato dal direttore dei lavori ed è stato seguito da un video(qui di seguito) che mostra in digitale che aspetto avrà la basilica tra 13 anni.
In fondo i disegni delle strutture  architettoniche da realizzare.
****

****






When the church is finished it will have 18 towers: 12 dedicated to the apostles, 4 to the evangelists, one to Jesus and another to Mary.
----------------------------------------------------------------

Links:

www.sagradafamilia

Foto

giovedì 6 dicembre 2012

Oscar Niemeyer

Oscar Niemeyer
Fernandes: http://caricaturasfernandes.blogspot.com/


È morto Oscar Niemeyer
Aveva 104 anni, era il leggendario architetto brasiliano che inventò Brasilia, palazzi che sembrano astronavi e la Mondadori di Segrate e L'Auditorium di Ravello

 “It is not the right angle that attracts me, and even the straight line, hard, unyielding man-made. What attracts me is the free and sensual curve. The curve that I meet in the mountains of my country, in my favorite lady,  in the clouds of the sky and sea waves. It’s made of curves throughout the universe. The curved universe of Einstein.” (Oscar Niemeyer)


Oscar Niemeyer,
Rio de Janeiro - 15/12/1907 5/12/2012
Marilena Nardi


Oscar Niemeyer - William Medeiros


Oscar Niemeyer - JBosco Azevedo


Architect Oscar Niemeyer.
Honorable mention at the 2nd BH Humor 2010.(Rubber and ink on paper) A3
Glen Batoca
Capa da Revista Brasília em Dia saindo do forno.
William Medeiros


Oscar Niemeyer - Nelson Santos



Oscar Niemeyer - Tonho


foto

Niemeyer by
Jean Galvão

Oscar Niemeyer by Andrè Hippert
Niemeyer by Tomas Serrano


Esta capa da Brasília em Dia que fiz em 2009, quando pipocaram os escândalos de corrupção no governo do DF, no dia de hoje teria um significado mais triste ainda.



Dalcio


Latuff



Je suis un animal
come un antre
je ne pe qu'a cela...
Sans la femme, il n' y a pas
de raison de vivre
c'est inevitable.
La femme est la
compagne de l'homme,
 elle est indispensable.
C'est, l'incarnation de l'etre
humain, la reine des Hommes,
elle est fantastique uoi!


Oscar Niemeyer